Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della guerra in Ucraina a seguito dell’ingiustificata aggressione da parte di Putin, molte aziende si sono trovate nella situazione di dover esistere e operare in un contesto storico in cui il business as usual non era più una strada percorribile.

Per lo meno dal punto di vista della comunicazione e del marketing.

Viviamo in una società che ha abituato il pubblico ad aziende che si espongono e comunicano quotidianamente su temi di cronaca, politica, rilevanza sociale. È il real time marketing, sono le campagne di advertising sulla festa delle donne, sono i post su #freeRenatino.

E ora, con le televisioni e le radio e i quotidiani e i social network invasi dalle notizie sul conflitto in Ucraina, il loro silenzio risulta assordante (come fa notare anche Vincenzo Cosenza in un post su LinkedIn).

Storia di chi parla e di chi sta zitto

Il mercato italiano, da questo punto di vista, si è rivelato estremamente attendista. Sono molto poche le aziende di una certa rilevanza che hanno preso una posizione chiara e pubblica in relazione alla aggressione da parte di Putin, e ancora meno quelle che hanno dimostrato di essere quanto meno consapevoli che in Ucraina una guerra c’è.

Hanno fatto qualcosa le compagnie telefoniche – Vodafone, Iliad, WindTre (fra le prime a muoversi), Fastweb, TIM – che hanno offerto chiamate gratuite verso l’Ucraina o roaming gratuito per chi si trova in territorio ucraino. Hanno fatto pochissimo i brand della grande distribuzione organizzata, con la sola Coop che si è esposta con un generico post #nowar su Facebook e il silenzio da parte di praticamente tutte le altre realtà nazionali. Non hanno fatto niente i brand energetici, che lateralmente sono coinvolti da questa crisi. Non ha fatto niente neppure Taffo, che nel real time marketing ci sguazza sempre e ne fa motivo di vanto e che in questa occasione – forse anche a ragione – ha preferito invece esplicitare la volontà di restare in silenzio sul tema.

L’unico brand di una certa rilevanza in Italia a esporsi in maniera netta in relazione al conflitto ucraino-russo è stato La Feltrinelli, che ha modificato tutto il branding dei suoi account social in ottica di ripudio della guerra e di sostegno al popolo ucraino. La modifica ha riguardato sia l’account La Feltrinelli che la quello del Gruppo Feltrinelli che quello della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Ucraina e Russia, sostegni mitologici e fake news

D’altro canto, la fame del pubblico di prese di posizione da parte delle aziende – ormai addestrato dai vari uffici di marketing a pensare alle aziende come estensioni della propria persona – ha portato al diffondersi di una serie di notizie relative a mirabolanti azioni in ottica anti-russa di svariati brand internazionali.

Secondo queste fonti, PornHub avrebbe ad esempio bloccato l’accesso del proprio sito alle persone che navigano da indirizzi IP russi. Notizia ripresa da numerosi influencer, personaggi dell’informazione e testate italiane salvo poi essere smentita prima da BUTAC e poi da Giornalettismo (molte testate però non se ne sono ancora accorte, e continuano a rilanciare la notizia).

Ancora: fonti svariate hanno affermato negli scorsi giorni che OnlyFans avrebbe bloccato l’accesso al servizio da parte dei creator presenti su territorio russo e bielorusso, dando l’idea di un supporto morale alle popolazioni ucraine. Una notizia che ha creato più di un malumore fra molti dei lavoratori del sesso presenti sul territorio. Anche questa era una notizia falsa, o meglio: distorta. OnlyFans ha bloccato – e poi ripristinato – gli account di svariati content creator russi per ragioni prettamente finanziarie: a seguito delle limitazioni imposte da Stati Uniti, Canada, Unione Europea ai conti bancari russi, il pagamento è diventato difficile se non impossibile.

Prendere posizione è possibile? Prendere posizione è giusto?

Che lezioni possiamo imparare, in relazione al marketing e alla comunicazione, da questo scenario obiettivamente molto confuso?

Innanzitutto che si raccoglie ciò che si semina: il marketing moderno (fra iniziative di responsabilità sociale e uso e abuso di influencer marketing) ha trasformato i brand in soggetti con una personalità e dei valori pubblicamente accessibili, e ha addestrato la gente comune a notarli, dargli peso, e a farsi guidare dagli stessi nel costruire un rapporto con le aziende. Questo ha recato sì benefici ai brand dal punto di vista competitivo, ma allo stesso tempo ha sviluppato aspettative nel pubblico. Che non possono essere deluse, e sono sempre più alte. Per quanto ancora le aziende potranno far finta di niente, congelare i propri piani editoriali, provare a parlare d’altro senza pestare troppo i piedi a qualcuno? Non si può essere carta da parati per sempre: non prendere posizione è prendere posizione, nelle situazioni di conflitto.

In secondo luogo, che non ci si può neanche permettere di portare avanti con leggerezza operazioni di marketing etico e valoriale: il caso di OnlyFans in Russia ha aperto gli occhi su come una semplice azione possa privare le persone delle proprie fonti di sostentamento. Punire i russi per le azioni del proprio leader è sbagliato. Ma è un discorso valido in qualsiasi contesto: se si punta su azioni di marketing che hanno componenti di valutazione etica, bisogna avere la piena consapevolezza delle ramificazioni che la propria posizione ha.

Questo però non deve spaventare. Prendere posizione su tematiche di questo livello si può e si deve fare.

I brand si trovano sì fra l’incudine e il martello, ma questo non implica la perdita del controllo sulle proprie scelte comunicative, di marketing e di business. Se una azienda ha costruito fondamenta etiche solide, basterà applicarle con buon senso anche in contesti così fuori dall’ordinario. Il pubblico, che stupido non è, capirà.