Claudio Mastroianni

Digital Expert & Cantastorie

  • Intervista a Iris Van Herpen

    Intervista a Iris Van Herpen

    C’è qualcosa di etereo – quasi ultraterreno – nella figura di Iris van Herpen, stilista 31enne olandese scelta da DS come ambasciatrice dello “Esprit d’Avant-garde” del marchio.

    È davanti a te, ma potrebbe benissimo essere altrove, e nello stesso momento. A vederla nello spot della DS 5, però, leggi nel suo sguardo anche una determinazione e una fermezza inaspettata: una stella in ascesa, sbarcata con successo sulle (ambite) passerelle di Parigi e che sempre più viene vista come una delle stiliste che daranno forma alla moda dei prossimi anni.

    La van Herpen però ha anche una mente precisa e analitica, quasi scientifica, che si riflette in un approccio al fashion unico. Materiali plasmati con i campi magnetici, o costruiti usando le più moderne tecnologie: soluzioni prese in prestito dall’architettura, dall’astronomia, dalla geofisica.

    Di fronte a questa contaminazione continua con campi che nulla hanno a che fare con la moda, la prima domanda da farle arriva facilmente: e le auto?

    Mi lascio ispirare moltissimo dal loro processo di design, che sento molto vicino al modo in cui io mi approccio al fashion. E penso che l’attuale modo di costruirle possa essere anche il futuro della produzione di moda. Soprattutto se si pensa alle tecniche di stampa 3D. Molti elementi dei miei abiti sono già creati in collaborazione con aziende che normalmente lavorano con l’industria dell’automobile.

    Quanto ti ha sorpreso l’offerta di diventare uno dei volti del nuovo brand DS?

    Sono rimasta stupita. Ma, poi, quando ho conosciuto meglio il marchio ho avuto la sensazione che fra il mio modo di lavorare e il loro approccio ci fosse un punto d’incontro molto forte. Cerco sempre di superare i limiti del fashion design, e anche DS ci sta provando nel suo campo. Condividiamo l’attenzione all’innovazione e alla sperimentazione, un certo gusto nel fare cose che non sono state realizzate finora”. La concept che DS ha presentato punta molto su soluzioni innovative in fatto di materiali e finiture, che vedremo in strada solo fra un po’.

    Il rapporto fra concept e produzione mi sembra simile a quello fra couture e ready-to-wear, con cui hai a che fare tu…

    C’è una certa similitudine fra l’alta moda e le concept car, perché entrambe danno al designer la libertà di sperimentare. Sono laboratori di ricerca per soluzioni che vedremo in futuro. Quello che provo a fare io è un passo in più: colmare il gap fra couture e ready-to-wear mediante la forza della scienza e della tecnologia. Che è un po’ quello che, credo, vedremo accadere anche nell’industria delle auto.

    In un’intervista al New York Times hai affermato che i clienti delle tue collezioni “vedono gli abiti in maniera diversa”. Se dovessi applicare questo concetto alle auto, cosa ti piacerebbe vedere?

    Mi piacerebbe che si sviluppasse un mercato per l’acquisto di concept car, così come ne è nato uno per la moda sperimentale. Ha permesso ai miei clienti di sostenere il mio lavoro, e potrebbe aiutare anche i designer di auto. E dei Saloni dell’auto cosa ne pensi? Nel mondo della moda sei nota anche per i tuoi show spettacolari. Le sfilate sono il momento in cui tutto arriva a un punto: gli show nascono in parallelo con lo sviluppo delle collezioni, sono elementi profondamente collegati. Ogni spettacolo è unico, il processo di ideazione cambia di volta in volta. Passo molto tempo a provare varie strade fino a che non trovo l’idea giusta, mi piace dare al pubblico anche qualcosa su cui pensare, oltre che mostrargli i miei prodotti. Ecco, penso che per ogni show- anche quelli dell’auto – si dovrebbe lavorare allo stesso modo.

    Fra poco sarai alla Fashion Week di Parigi con la nuova collezione ready-to-wear. Un anticipo?

    Non voglio rovinare la sorpresa, quindi non posso dire nulla. Ma sappiate che le tecnologie usate nell’industria automotive giocheranno un ruolo fondamentale.

    Vedremo mai un modello DS con sopra la tua firma?

    Per me disegnare qualcosa che non sia moda è come prendere una piccola vacanza. E tutti ne abbiamo bisogno. Solo il tempo ci dirà dove andrà a parare la mia collaborazione con DS. Ma sì, di sicuro una possibilità c’è.

  • Carol Hubscher: la donna dietro la matita

    Carol Hubscher: la donna dietro la matita

    Secondo Carole Hubscher, gli svizzeri e gli italiani hanno una cosa che li accomuna più di quanto il resto li divida: l’amore per l’artigianato, la manifattura.

    Insomma: siamo popoli pratici, che amano fare, costruire, creare. Sporcarsi le mani.

    Presidente di Caran d’Ache, marchio che ci ha regalato strumenti per la scrittura e il disegno iconici come il portamine Fixpencil o le matite acquerellabili Prismalo, l’abbiamo incontrata in occasione della Milano Design Week e della presentazione dell’edizione speciale della Fixpencil firmata Mario Botta, e ne abbiamo approfittato per sederci con lei e farci raccontare la sua visione del design, filtrata dalla lente di chi trasforma il prodotto in progetto imprenditoriale.

    “Un prodotto di design è un qualcosa che sì può passare alle generazioni future, una bella storia, un prodotto iconico. Questo è il design”, ci ha raccontato Carole. “Prendete la nostra Fixpencil, ad esempio: è un vero prodotti di design perché non è qualcosa che segue le mode. È rimasta e rimane sempre se stessa”.

    E in effetti stiamo parlando di un prodotto con quasi 90 anni di storia, nato per merito di due degli elementi che costruiscono la base dell’innovazione: la necessità e l’intuizione. Nel 1929 – anno di creazione della Fixpencil – il legno di cedro che costituisce l’armatura delle classiche matite scarseggiava, ed è da questa necessità che l’ingegnere Carl Schmid ebbe l’intuizione di creare una armatura meccanica, un portamine a pinze in grado di sfruttare direttamente le mine in grafite.

    Un’idea semplice accompagnata da scelte di design vincenti (la forma esagonale della Fixpencil richiama quella delle matite a cui siamo abituati) ed ecco un oggetto senza tempo, valido e apprezzatissimo ancora adesso.

    Carole Hubscher ci scherza su: “È il regalo perfetto: c’è una storia dietro, ed è anche più economica di un mazzo di fiori”.

    “Quando hai un prodotto iconico, si vende da solo: la gente ne conosce bene la qualità, e sa di non correre un rischio o rimanerne deluso“. 

    La Hubscher ci racconta della sua azienda con la chiarezza, la calma e l’energia di una persona che ha piena fiducia nel suo marchio.

    Che, dopotutto, ha tranquillamente superato il traguardo dei cent’anni (e qualcosa vorrà pur dire).

    Caran d’Ache è un ‘love brand’, un marchio che si ama, che si lega ai nostri sentimenti: ci ricorda la nostra infanzia, i bei momenti della nostra vita. Sono molto orgogliosa di esserne presidente, soprattutto perché si tratta di un marchio che è ancora al 100% svizzero: creiamo e produciamo in Svizzera, senza nessuna esternalizzazione all’estero”.

    “Quello che vorrei aggiungere all’azienda, come primo presidente donna, è una maggiore trasparenza comunicativa: abbiamo così tanto da raccontare, e finora abbiamo detto pochissimo, ci siamo solo concentrati sulla produzione. Ma oggi come oggi la gente vuole conoscere la storia dei prodotti che acquista. Che cosa c’è dietro a un brand”.

    Storia, storia, storia: una parola che ritorna spesso nella nostra intervista, un concetto che Carole Hubscher sembra amare particolarmente e che accompagna la sua visione del marchio.

    Certo, con un heritage così forte come quello di Caran d’Ache la tentazione potrebbe essere quella di sedersi, rilassarsi e affidarsi a oggetti iconici come la Fixpencil, o le matite Prismalo, o le stilografiche Madison, o le classiche penne a sfera 849.

    Tutti prodotti che si vendono da soli, come ricordava la presidentessa.

    Invece l’azienda svizzera ha optato per una strategia intelligente, fatta anche (e soprattutto) di edizioni speciali che vedono il coinvolgimento di architetti, designer, artisti.

    Un omaggio a chi quei prodotti li usa davvero tutti i giorni (Joan Mirò e Picasso, per citare due nomi), ma anche una strizzata d’occhio agli amanti del collezionismo, sempre alla ricerca di sfizi e novità.

    Paul Smith, India Mahdavi, Claudio Colucci, lo stesso Mario Botta: personaggi che hanno messo la loro firma e la loro cifra stilistica sulla cancelleria made in Swiss, andando ad arricchire e rinfrescare il catalogo di Caran d’Ache con veri e propri oggetti del desiderio.

    “Penso che sia molto importante che ci siano storie reali dietro alle collaborazioni che nascono fra un brand e gli artisti”, sottolinea però la Hubscher.

    “Con Mario Botta, per esempio: Mario usa da molto tempo la nostra FixPencil, ne ha una rossa sempre nel taschino”. Per questo motivo Caran d’Ache ha deciso di approcciarsi ancora una volta a Botta (aveva già firmato una stilografica nel 2005) chiedendogli di metterci la testa. Rilavorando la Fixpencil con il suo stile personale. 

    “… e si vede immediatamente la firma di Mario Botta, a colpo d’occhio”, conclude Carole Hubscher. “Si dice che una delle prime cose che Botta dice ai suoi studenti è ‘Dimenticate i computer: prendete una Fixpencil e imparate a disegnare a mano libera’. Ed è proprio vero: l’atto creativo nasce da una connessione fra quello che hai in mente e la tua mano. I primi schizzi, le prime fasi di un progetto… è importantissimo che vengano fatte a mano”.

    Perché il passato, la tradizione devono essere amati e rispettati.

    Le nuove tecnologie possono aiutare i designer, velocizzare la produzione, creare nuovi materiali e nuove soluzioni. Ma per dare forma al pensiero, prima di tutto, serve un foglio di carta. E una matita.